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Jitte (Shotokan)

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Il jitte è un kata del karate.

Il substrato culturale marziale dove si è sviluppato tale addestramento ha fatto in modo di selezionare e verificare l'efficacia reale, con poche probabilità di errore: occorre maturare sul “campo di battaglia” l'esperienza per adattare il kata alla realtà della lotta.

Pertanto, oggi, nella pratica di questi bisogna sempre considerare il concetto di “temporalità esplosa”, sicché non può sussistere il kata senza la reificazione del bunkai, come non esiste la nozione di bunkai se lo stesso esercizio è svincolato dal maai, dallo yomi e dallo yoshi che rileviamo nel kumite e nella realtà della difesa personale.

Appare quindi evidente che il bunkai ci sprona a non sottovalutare il kumite perché entrambi sono i due lati della stessa medaglia, l'esercizio e l'idea di kata marziale trasmissibile attraverso la ripetizione ortodossa, non programmata per le competizione, questo procedimento approfondisce, attraverso l'applicazione del kata, e l'addestramento del goshin (autodifesa) e del kumite irikumi: poiché entrambi i metodi richiedono una particolare attenzione non tanto sulla tecnica quanto sul principio che muove tori (l'attaccante) e sull'efficacia collegata al “tempismo”, l'obiettivo del bunkai del kata è quello di insegnare al praticante ad uscire indenne da uno scontro, a tal fine è importante tenere sempre debito conto che il fine ultimo del kata trascende ogni forma di fittizia efficacia.

Se da un lato è piuttosto facile strutturare e architettare tecniche di difesa personale utilizzando le tecniche del kata, dall'altro diventa molto più difficile invece applicare le stesse in contesti non uniformati, in tal senso, a fronte di simili complicazioni, molti praticanti abbandonano questo difficile punto di partenza per approdare invece ad un quadro di “adeguamento”, ipotizzando, a loro piacimento, questa o quella teoria di lotta: in verità quanti di noi si sono mai scontrati in combattimento con avversari che eseguono attacchi e strategie a noi preferite?

Anche il grande Maestro Kanō Jigorō (fondatore del Judo) volle contribuire con alcuni dei suoi kata a diffondere il concetto non tanto di forma ma di efficacia, nel kime-no-kata (forma della decisione) Sensei Kano trasmette il messaggio ai posteri che in questo kata non bisogna fermarsi al suo aspetto tecnico, ma che lo stesso kata è uno strumento per trasferire i principi, che nella fattispecie partano dal “kime”, egli volle trasfondere ai suoi allievi più avanzati, attraverso le sue forme (kata), la capacità di “analizzare” le sue preziose indicazioni e ricercare autonomamente nuove soluzioni.

Da questa breve esposizione possiamo dedurre che è possibile lottare con gli strumenti che i kata ci mettono a disposizione ma è comunque difficile renderli verosimilmente adatti al contesto della difesa personale o del kumite tridimensionale, se come unico parametro viene presa in considerazione esclusivamente la fisicità e la bellezza del gesto il kata diventa un esercizio di forma banale e insignificante privo di fondamento marziale. Risulta conveniente pertanto sviscerare i fondamenti di lotta senza che gli stessi siano “ingessati” da vincoli stilistici per apprenderne i sottili segreti tramandaci con i “messaggi” dei kata. Per mezzo di tali profondi principi il kata esercita sul praticante una concreta crescita sotto ogni punto di vista, tecnico che psicologico. Detto questo passiamo ad analizzare uno tra i più importanti kata dello stile Shotokan, Jitte, (dieci mani).

Esaminiamo l'origine e lo sviluppo, in questo modo potremmo trarre da questa analisi numerose informazioni utili per fare in modo che il nostro allenamento si concretizzi e “contestualizzi” rendendo la pratica del kata qualcosa di effettivamente utile al combattimento reale, sia contro avversario armato che a mani nude.

I kata, a mio avviso, non sono dei residui delle epoche passate, piuttosto essi sono dei modelli che si rinnovano e si adeguano ai cambiamenti nel tempo, essi vanno approfonditi e sviluppati guardando al futuro tenendo sempre i piedi ben saldi nelle nostre origini.

Uno dei due kanji con il quale si scrive “jitte” è a forma di croce come l'enbusen del kata, il significato del kata è “dieci mani”, ma potrebbe, come succede per molti altri kata, avere ulteriori significati come per esempio “Jute” (attrezzo utilizzato dai corpi di polizia Okinawensi per difendersi da attacchi di fendenti di spada), in certi casi anche la ricerca etimologica del nome ci può fare capire quale possa essere il suo insito messaggio.

Nel kata Jitte, composto da 24 kyodo (movimenti), una tecnica molto particolare alla quale spesso non viene data l'importanza dovuta, è il colpo di “ginocchio a martello” (shittsui) detto anche “blocco di ippon ashi dachi, portato appunto come blocco per parare un calcio a lunga distanza o come percossa quando ci troviamo ad una distanza molto vicina all'avversario (chikai-maa), tecnica notevolmente efficace che serve per colpire il nervo cutaneo femorale laterale che porta alla perdita del controllo degli arti inferiori e all'abbandono della volontà di continuare a combattere. Un'altra tecnica molto efficace consiste nel colpire con la mano aperta “ chudan yoko- ken-uchi” il fianco dell'avversario nel punto della ramificazione del nervo ilioipogastrico e nervo subcostale , che andrà ad alterare il sistema nervoso provocando la perdita di controllo delle gambe e molto spesso lo svenimento.

Dal kata Jitte anche il M° Yoshitaka Funakoshi estrapolò alcune tecniche che egli riteneva potessero essere mortali come le tre tecniche di ryo sho koko uke, che portate sui punti di pressione del collo ST9 (per il kyusho corrispondono allo stomaco)possono provocare la perdita del controllo delle braccia e del tronco, inoltre se simultaneamente si comprime, schiacciando o colpendo, il centro del collo (pomo d'Adamo), dove è collegato il nervo vago(triplice riscaldatore) si può procurare la morte dell'avversario.

Diverse sono le tecniche che nel kata Jitte possono tornarci utili, sia che stiamo combattendo contro una persona addestrata sia si combatta contro una persona normale a mani nude o armate; molte di queste tecniche, oramai inusuali nel karate moderno, furono concepite e sviluppate sulla nozione del “quando e come”, per essere indirizzate sui punti vitali del corpo e fare in modo che l'aggressore, anche se armato, fosse incapace di offendere e perdesse la facoltà di combattere.

Per molti maestri capiscuola il kata era il migliore dei metodi per tramandare conoscenze acquisite, sviluppate e attuate nel corso della loro lunga esperienza di pratica, un percorso mai lineare ed uniforme frutto di ricerche e riscontri scaturiti non da una unica mente, da un singolo uomo, un contributo cumulativo formatosi sulla stratificazione di molteplici esperienze arricchite da una moltitudine di altre conoscenze. Di Ciro Varone


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